Grazie, Graziano Braschi

Grazie, Graziano Braschi.

Io, come tanti altri autori, devo ringraziare Graziano Braschi per i consigli, l’incoraggiamento, la possibilità di partecipare ad antologie e iniziative relative al giallo e al noir. Per quel che riguarda la biografia di Graziano e il ricordo della sua figura, rimando a questa scheda e alle pagine di Stefano Martinelli e Giuseppe Previti. Graziano Braschi è venuto a mancare il 13 ottobre 2015. A un anno di distanza, è uscita un’antologia in suo onore, alla quale ho partecipato, con grande emozione.

Grazie Graziano Braschi

L’antologia (ISBN 9788893830089) è curata da Alberto Eva e pubblicata da Carmignani Editrice.

L’immagine di copertina è un noto disegno di Graziano Braschi, che, tra le molte altre cose, è stato un appassionato vignettista.

 

GLI AUTORI

Racconti di: Graziano Braschi, Lucia Bruni, Sergio Calamandrei, Riccardo Cardellicchio, Linda di Martino, Alberto Eva, Leonardo Gori, Loriano Macchiavelli, Stefano Martinelli, Maurizio Pagnini, Riccardo Parigi e Massimo Sozzi, Roberto Pirani, Enrico Solito, Ma­rio Spezi, Laura Vignali.

A cura di Alberto Eva.

LA QUARTA DI COPERTINA

La gratitudine, sentimento affettuoso di riconoscenza verso l’operato di qualcuno, prevede la completa disponibilità a contraccambiare. Grazie, Graziano è la risposta che quindici autori fiorentini hanno messo nero su bianco, anzi su giallo, per ringraziare quella poliedrica persona che è (uso di proposito l’indicativo presente) Graziano Braschi. Un tributo prima all’uomo, poi all’artista, un riconoscimento dovuto per un merito: sopra tutti, quello di avere “il coraggio del proprio pensiero. Lo esprimeva con leggerezza, possibilmente evitando lo scontro, ma aveva principi non negoziabili”. Quindi non fatevi ingannare dal facile gioco di parole del titolo, in queste pagine non troverete nessuna retorica: semplicemente il meglio che ciascun autore è riuscito a donare con gratitudine a Graziano. (Andrea Falchi, curatore collana Profondo giallo).

VELOCE-CLUB

Il racconto col quale ho partecipato all’antologia s’intitola Veloce-Club e ha per protagonista il giovane Sabatino Arturi. Parla dell’apparizione dei primi velocipedi nella Firenze capitale del Regno d’Italia e dell’organizzazione di una delle prime corse in linea al mondo, la Firenze-Pistoia del 2 febbraio 1870.

velocipede CICLISTI organizzatori della prima corsa ciclistica su strada 1870 Veloce Club

Il racconto è un’opera di fantasia ma buona parte degli eventi relativi all’introduzione dei velocipedi in Firenze, e alla corsa del 1870, corrisponde fedelmente a quanto riportato dalle cronache dell’epoca.

L’INIZIO DELLA NOTA POSTA AL TERMINE DEL RACCONTO

Il personaggio di Sabatino Arturi è ispirato alla figura del giornalista Ugo Pesci (1842-1908) ed è già stato protagonista del racconto “La ragazza delle case di ferro” pubblicato nell’ultima antologia promossa dal caro Graziano Braschi, ovvero “Firenze capitale noir” edita nel 2015 da Carmignani Editrice. Graziano è stato il primo presentatore del mio libro di esordio ed è grazie ai suoi incoraggiamenti e consigli se negli anni ho continuato a scrivere. Oltre a molti altri meriti, egli ha anche quello, in un momento in cui mi ero disamorato della scrittura, di avermi insistentemente chiesto di riprendere la penna in mano, proprio per partecipare a “Firenze capitale noir”. Mi sono innamorato di quel periodo di storia della mia città e continuerò a scrivere racconti ambientati al tempo in cui Firenze era capitale. Il mio contributo all’antologia, in ringraziamento di Graziano, non poteva dunque che aver come protagonista Sabatino Arturi.

L’INCIPIT DI VELOCE-CLUB

Io, Sabatino Arturi, c’ero il giorno che il primo velocipede apparve a Firenze, capitale del Regno. Era il 9 settembre del 1868 e quel pomeriggio ero andato nel parco delle Cascine a osservare il consueto passeggio delle carrozze dei nobili, quando vidi apparire un signore che si muoveva veloce su un attrezzo dotato di due ruote. Quella anteriore era così alta che l’uomo non toccava terra. Capii che doveva essere uno di quegli apparecchi, detti velocipedi, che stavano divenendo di moda in Francia e in Inghilterra.

Ventiseienne, ero di ottima famiglia borghese: mio padre era direttore degli Uffizi, e mio zio, comandante delle guardie municipali. Congedato dall’esercito, non avevo ancora deciso quale carriera avrei intrapreso, ma nel frattempo stavo ben attento a cogliere ogni opportunità di guadagnare qualche soldo. Facendo inorridire il babbo e lo zio, ero diventato socio occulto di un nostro anziano domestico: avevamo messo in piedi una rete di venditori ambulanti di trippa e lampredotto che smerciavano con profitto queste prelibate frattaglie agli operai dei mille cantieri della capitale e agli impiegati torinesi più umili, calati qui a frotte, insieme ai loro ministeri. Pecunia non olet e, infatti, il denaro ricavato un po’ volgarmente col lampredotto non puzzava e mi faceva comodo; ma non era molto e dovevo cercare di integrarlo. Quando vidi quel signore sfrecciare veloce fra la polvere del viale delle Cascine, la prima cosa che mi venne in mente fu che i velocipedi potevano essere un buon modo per fare quattrini. Benché fosse poco decoroso, corsi quindi dietro a quell’uomo finché lo raggiunsi. Era un francese, si chiamava Alexis-Georges Favre. Mi spiegò che aveva una fabbrica di velocipedi a Voiron e li voleva vendere a Firenze, nel Bazar Europeo.

velocipede un FAVRE

Mi congratulai con Favre e gli augurai la miglior fortuna nella commercializzazione del suo mezzo, poi corsi subito da Giovanni Santacroce, un meccanico di via Montebello che conoscevo bene: gli spiegai che dovevamo iniziare a fabbricare velocipedi. All’inizio mi prese per matto, ma poi riuscii a convincerlo che la nobiltà fiorentina, per non passare da provinciale, avrebbe presto adottato la moda delle due ruote. E io, i giovani nobili li conoscevo tutti, dato che mio babbo, lungimirante, aveva sempre preteso che lo accompagnassi quando portava le famiglie dei signori a visitare gli Uffizi. Mi avevano pesato moltissimo tutte quelle ore passate tra i quadri e le statue a conversare con i nobili locali e con i numerosi forestieri che volevano ammirare le nostre bellezze, ma adesso avevo una certa conoscenza dell’arte e, soprattutto, del bel mondo fiorentino. Quindi Giovanni avrebbe costruito i velocipedi e io avrei piazzato i suoi prodotti. Naturalmente, nessuno avrebbe dovuto sapere delle mie provvigioni: volevo evitare che a mio padre venisse un attacco di crepacuore per il timore che si scoprisse che suo figlio rischiava di disonorare la famiglia occupandosi, oltre che del lampredotto, anche di vili attrezzi meccanici.

DA “LA NAZIONE” DEL 12 SETTEMBRE 1868

“Dal giorno di mercoledì scorso, si è veduto circolare nelle vie della nostra città e alle Cascine, il Velocipede a due ruote, istrumento molto sparso in Francia e in Inghilterra, ma che noi non conoscevamo ancora. Il signor Favre, fabbricante a Voiron (Isère) vi saliva sopra da sé, correndo con straordinaria velocità: egli si è recato a Firenze coll’intenzione di mettere un deposito di questi Velocipedi al Bazar Europeo. Or sono più di quindici anni, i Velocipedi erano qui molto di moda; ma erano imperfetti, esigevano molta fatica  ed erano essenzialmente diversi da quelli del signor Favre, che possono offrire ai giovani un esercizio ginnastico, utile e divertente a un tempo.”

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