A modo nostro. Il giallo, il noir, secondo noi. E ci dispiace per gli altri

A modo nostro. Il giallo, il noir, secondo noi. E ci dispiace per gli altri, un’antologia di dodici racconti in giallo e nero curata da Alberto Eva, alla quale partecipo con Sabatino e la collana di perle.

“Sono apparso in incubo a Graziano Braschi. Dopo l’iniziale strizza, ha avuto parole buone per i nostri sforzi. Irenico, le ha sempre riservate a (quasi) tutti. Grati, gli dedichiamo questo ennesimo esperimento, volto a diffondere una buona novella: il giallo e il noir, in certe mani, divengono letteratura.

Annuivano lieti, Linda di Martino e Mario Spezi, aventi conseguito l’obbiettivo con le loro narrazioni, così presenti nell’antologia.”

L’antologia (ISBN 9788893831611) è curata da Alberto Eva e pubblicata da Carmignani Editrice (2020).

L’immagine di copertina è di Maurizio Pagnini.

GLI AUTORI

Racconti di: Sergio Calamandrei, Gaddo Emilio Carli, Linda di Martino, Alberto Eva, Loriano Macchiavelli, Daniele Nepi, Maurizio Pagnini, Riccardo Parigi e Massimo Sozzi, Mario Spezi, Martino Stefani, Enrico Tozzi, Federigo Vinci.

A cura di Alberto Eva.

LA QUARTA DI COPERTINA

“L’inferno sono gli altri”: almeno questa, Jean Paul Sartre (ma chi lo legge più?) l’ha azzeccata. La diffusione del computer ha messo in circolazione millanta soi-disant autori; personaggi sguinzagliati alla cerca di lettori, perché autori si reputano già loro, quindi al diavolo Pirandello. E finisce che mi tocca leggere: “Rossella arrossì”, e di “alcune macchine” della polizia, che si recano a consegnare una pistola ad un Tizio che potrebbe averne bisogno: dispiegamento di forze che pare esagerato. Di un Caio che, in auto, passa fra due transenne che chiudono una strada, sfidando la legge dell’impenetrabilità dei corpi. Dulcis in fundo, un autore famoso si esibisce con un “non voglio che nessuno sappia”; tradotto, “Voglio che tutti sappiano”, perché due negazioni si elidono. Ma dal contesto è chiaro che il senso della frase è: “Voglio che nessuno sappia”, o “Non voglio che qualcuno sappia”. Prendere le distanze, urget nos. Gli autori dei racconti qui raccolti, ritengono di averlo fatto con la presente antologia. È la nostra quarta testimonianza: ci abbiamo già provato con Passata è la tempesta, Un’idea di giallo. O di noir, e Il giallo, il noir e Marilyn.

Sabatino e la collana di perle

Sesto racconto che ha per protagonista Sabatino Arturi, giovane entusiasta che vive al tempo di Firenze capitale del Regno d’Italia (1865-1871). In questa avventura il povero Sabatino è sottoposto a forti stress, sia sentimentali che economici, dovendo proteggere dalle rapaci mani di un marinaio genovese la preziosa collana di una giovane e leggiadra fanciulla belga, figlia di un uomo d’affari che sta costruendo un bacino di carenaggio in Egitto, in vista dell’imminente apertura del canale di Suez.

Questo è l’incipit:


18 marzo 1867, in Firenze capitale del Regno – Il sogno egizio

«Un mese fa, il 17 febbraio, il primo battello è transitato dal canale di Suez. Ancora dodici, diciotto mesi e questa magnifica opera sarà completata e aperta ufficialmente. Migliaia di navi, ogni anno, risaliranno il mar Rosso per dirigersi in Europa… Di cosa avranno bisogno tutte queste navi?»

E qui arrivava il colpo di scena di monsieur Dumont.

Il cinquantenne belga, basso, calvo e con una pancia florida e rotonda che tendeva la giacca, si interrompeva; recuperata la pipa, temporaneamente appoggiata sul tavolo, tirava una boccata soddisfatta, guardando i ricchi possidenti e i nobili seduti nel salotto di casa Bonciani.  

«Ebbene» riprendeva «tutte quelle migliaia di navi, dopo la lunga traversata dell’Oceano Indiano, tormentata da tempeste e da ondate gigantesche, avranno bisogno di questo!»

A quel punto, srotolava sul tavolo un grande foglio, con un bellissimo progetto, colorato e pieno di dettagli.

«Avranno bisogno di un bacino di carenaggio, per le riparazioni urgenti. E dato che dovranno attendere anche per giorni il loro turno di transito nel canale, potranno approfittare di questo tempo morto per effettuare i lavori. L’impianto avrà un’altissima redditività perché quelle scimmie egiziane lavorano per un tozzo di pane. E, soprattutto, perché, grazie alle mie introduzioni presso la corte del Chedivè d’Egitto, sono riuscito a ottenere la concessione per realizzare la struttura proprio qui, a pochi chilometri dallo sbocco del canale.»

E stendeva un secondo, ampio, foglio con una mappa delle coste del Golfo di Suez. A quel punto, molti di quei facoltosi, invitati per sottoscrivere le quote dell’investimento, si alzavano e, affollandosi attorno al tavolo, iniziavano a scrutare i disegni e a fare domande.

Era la terza volta che assistevo alle conferenze di questo belga odioso che, pieno di supponenza, trattava tutti dall’alto in basso, quasi fosse venuto da noi poveri italiani a spiegarci come si fanno gli affari. Eppure, aveva convinto Ercole Bonciani, alto funzionario della Banca Nazionale Toscana e padre della mia amica Silvia, a organizzare degli incontri con potenziali investitori. Io, ventiquattrenne di famiglia rispettabile ma non ricca, dopo essere stato messo in aspettativa dall’esercito dovevo ancora decidere come impiegarmi e non disponevo certo dei capitali necessari per partecipare a simili investimenti. Ma il babbo di Silvia mi aveva chiesto di invitare ai suoi incontri alcuni dei giovani rampolli della Firenze bene che conoscevo, avendo studiato nel prestigioso Liceo Militare Arciduca Ferdinando, ora divenuto Regio Liceo Militare.

Non avevo sopportato quel presuntuoso monsieur Marc Dumont sin dall’inizio. Le prime due conferenze mi erano risultate fastidiose e interminabili, ma questa volta era diverso: il belga aveva portato con sé la figlia.

In un precedente incontro, l’aveva chiamata la sua bambina, ma quando quel pomeriggio, prima che arrivassero gli altri invitati, lei fece ingresso in casa Bonciani, ebbi modo di constatare che non era davvero più un’infante. Come Silvia, aveva diciotto anni. Il suo volto, un bell’ovale da Madonna botticelliana, veniva valorizzato dai capelli biondi accuratamente raccolti; era alta, con la vita sottile e un seno che, sotto il vestito castigato, s’intuiva importante. Solo gli occhi e lo sguardo erano da bambina, quelli sì. Entrò nella stanza a capo chino, e un po’ curva, come intimidita. Dopo due passi si arrestò, volgendosi verso il padre, in attesa.

Marc Dumont ce la presentò: Catherine.

«Che bel nome!» osservò Silvia.

«Viene da kataròs, in greco» spiegò il genitore. «Significa pura. La mia povera moglie lo scelse, come buon auspicio. Niente è più importante della moralità, per una femmina, vero, tesoro?»

La ragazza annuì.

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