I cani della pioggia di Tullio Avoledo

I cani della pioggia di Tullio Avoledo. Marsilio, Venezia, 2023. Un bel romanzo che ho letto con piacere. Al netto di alcuni punti, secondo me, critici nella struttura, il nuovo libro di Avoledo ha la grande capacità di trasportarci e immergerci nel teatro di guerra dell’”operazione speciale” russa in Ucraina e farci vivere ansie e paure insieme ai protagonisti. All’autore bastano pochi tratti per disegnare un mondo e le persone che lo popolano. Questa è una qualità dei grandi scrittori, tra i quali annovero certamente Avoledo, che seguo con affetto. Nel libro Avoledo riversa molta passione: in quella guerra si schiera senza dubbi dalla parte ucraina. Tutti i russi che si incontrano sono dipinti quindi come mostri o quasi, mentre i loro avversari sono eroi. L’effetto è un po’ quello dei film di propaganda americani sulla Seconda guerra mondiale. Ma Avoledo è bravo a instillare un dubbio nel lettore: la descrizione del modo in cui operano in guerra i russi è esasperata o è, purtroppo, realistica?

i cani della pioggia di Tullio Avoledo copertina

In I cani della pioggia l’autore fa apparire contemporaneamente per la prima volta due suoi personaggi seriali, entrambi ex poliziotti: lo scrittore Marco Ferrari e il molto operativo e abbastanza fascista Sergio Stokar. Entrambi vivono di solito le loro avventure in un mondo lievemente distopico, dove sono esasperati molti aspetti negativi del nostro tempo. In questo ultimo libro Avoledo ha voluto denunciare l’orrore della guerra attualmente in corso, quindi non è presente l’aspetto distopico. Forse non siamo propriamente nel realismo perché, per certi versi, potremmo vedere nel romanzo una trasfigurazione della guerra, un po’ come accade in Apocalipse Now. Ma non è questo il punto. Nel libro, l’autore ha fatto incontrare i suoi due seriali, che vivono insieme una serie di avventure. Dato che entrambi sono personaggi che hanno una forte impronta comune (probabilmente, come quasi sempre accade, sono tutti e due una proiezione di alcuni aspetti o modi di ragionare dell’autore) leggere i loro dialoghi mi ha fatto uno strano effetto: è come sentire la stessa persona che parla e che si risponde. Qui non è solo uguale il registro linguistico dei due personaggi, è anche uguale il tipo di umorismo e il modo di pensare. Forse non è una buona idea fare incontrare due propri seriali.

Il romanzo ha poi, secondo quel che insegnano nelle scuole di scrittura, che non è detto sia Vangelo, un altro paio di aspetti poco convincenti.

Innanzi tutto, da un certo punto in poi, si perde l’antagonista. I personaggi in fuga se la devono vedere con l’esercito russo in generale, non con una singola persona bene identificata e caratterizzata, che il lettore possa odiare. Zoran Marcović e i suoi accoliti scompaiono, e di loro non si hanno più notizie per un pezzo. Viene in mente, in senso lato, una delle venti regole per scrivere un giallo di Van Dine (vedi https://www.calamandrei.it/consigli-sulla-scrittura/ )

Sono regole vecchissime, del 1928, superate, che sono state infrante più volte dei Dieci Comandamenti, ma in questa c’è un fondo di verità: il personaggio specifico dell’antagonista è importante.

L’altro aspetto strutturale non ottimale lo evidenzia lo stesso Avoledo. Il protagonista è uno scrittore il quale, riflettendo sui propri libri, pensa:

“i due capitoli finali dei miei romanzi con l’ispettore Venier sono inevitabilmente dedicati a fare il bilancio della storia appena finita, dell’enigma risolto. È il mio stile, non posso farci niente. Anneliese dice che il libro ci guadagnerebbe se mi limitassi a una pagina, massimo due, anziché a due capitoli di spiegazioni. Dice che sono un anticlimax, che il lettore non puoi portarlo in cima alle montagne russe e poi farlo scendere a una velocità la lumaca.”

È facile qui sentire riecheggiare le divergenze che Avoledo ha avuto con il proprio editor, forse proprio sulla chiusura di questo romanzo. Ma poi l’autore ha fatto di testa sua, andando contro certe regole di scrittura. E sempre attraverso le parole del suo protagonista scrittore, Avoledo ci spiega che con I cani della pioggia ha voluto abbandonare la letteratura “di evasione”:

“E così, vedi, Anneliese, ho deciso che ero stufo di fare sempre e soltanto il pifferaio magico. Ho pensato che per una volta potevo intrattenere il mio pubblico portandolo fuori dal magico mondo dorato di Gianni Venier.

Ho deciso di scrivere un libro diverso da quello che il mio pubblico si aspetta.

E l’ho scritto.

È questo.

Un libro su una guerra non ancora finita.

Sulla violenza.

Sulla morte…

È un libro senza aperitivi al Florian e balli mascherati.

Un libro su quello che ho visto e ho fatto, su quello che potrebbe succedere anche qui, a tutti.

Un libro per ferire e per guarire.

Perché c’è un tempo per ogni cosa sotto il sole…”.  

Gennaio 2024.

La quarta di copertina di “I cani della pioggia”

Sergio Calamandrei

Sergio Calamandrei: vivo a Firenze, dove pratico il prosaico mestiere di commercialista. Mi appassionano scrittura, storia e letteratura. Per saperne di più: www.calamandrei.it/chi-sono-sergio-calamandrei/

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