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NEL NOME DEL PORCO di Pablo Tusset

(questa recensione analizza alcuni aspetti tecnici del romanzo di Tusset. NON vengono fornite qui informazioni sulla trama ulteriori rispetto a quelle già presenti nella quarta di copertina, che peraltro, svela troppe cose. Pertanto, io qui ometto anche alcune informazioni presenti nella quarta di copertina che consiglio di non leggere a chi voglia poi gustarsi il romanzo).

 

Pablo Tusset è l’autore di Il meglio che possa capitare ad una brioche, uno spassoso giallo anomalo che fila via benissimo per tre quarti e poi si perde completamente nel finale. Comunque, per un romanzo essere ottimo per tre quarti non è merito da poco e quindi consiglio vivamente di  leggere il primo libro di Tusset. Dato questo precedente, ho acquistato Nel nome del porco a scatola chiusa, pensando di trovare qualcosa di divertente. Invece questo romanzo è di tutt’altro genere. È un serio e tradizionale giallo incentrato su uno psicopatico. Io, in linea di massima, non apprezzo le storie che parlano di serial-killer e di pazzi omicidi. Può anche darsi che prima o poi ne scriva una anch’io, ma non le amo: le trovo un po’ una facile scorciatoia per crearsi un bel cattivo senza dover faticare troppo sui suoi moventi.  

Nel nome del porco si apre con un delitto eclatante: una donna è stata macellata in un mattatoio di un piccolo paesino di montagna spagnolo, San Juan del Horlà, seguendo la stessa procedura adottata per i porci. Con il che intendo dire che la poveraccia è stata sgozzata, disossata e la sua carne divisa nei tradizionali tagli previsti per i maiali. Sul delitto indaga il commissario Pujol, prossimo alla pensione. A un certo punto, Tomàs, poliziotto quarantenne che Pujol considera quasi un figlio, tornato da un periodo di aspettativa trascorso a New York, si inserirà nell’indagine andando ad infiltrarsi tra i poco raccomandabili abitanti di San Juan del Horlà.

Sono rimasto deluso dalla lettura de Nel nome del porco poiché l’ho trovato carente sotto almeno tre aspetti della tecnica di scrittura. Ho ritento opportuno evidenziarli perché almeno il primo (Troppa didattica esplicita) e il terzo (Troppo evidente ricerca degli effetti) sono difetti abbastanza diffusi nella narrativa gialla. Sapere cosa è giusto e cosa è sbagliato è un primo passo necessario per evitare di commettere peccati, ma, come insegna l’esperienza del mondo, non è sufficiente. Pertanto ammetto subito che forse anche alcuni miei scritti non sono esenti da questi difetti.

 

TROPPA DIDATTICA ESPLICITA

Il romanzo, in vari punti, ci spiega in modo molto didattico i meccanismi e le sintomatologie tipiche del comportamento degli psicopatici. I protagonisti talvolta inseriscono nei loro dialoghi delle brevi lezioncine al riguardo. A me non dispiacciono affatto i libri in cui si impara qualcosa; anzi: provo piacere ad arricchire le mie conoscenze storiche o su argomenti tecnici mediante la lettura della narrativa, ma occorre che l’autore sia molto abile nell’inserire armoniosamente nell’ambito della storia e dei dialoghi le informazioni che ci vuole fornire. In questo caso, taluni brani informativi mi sono parsi un po’ troppo “didascalici” o “scolastici”, se così si può dire.

 

PROBLEMI NELLA INTERCONNESSIONE DELLE LINEE TEMPORALI DELLA NARRAZIONE

La struttura del romanzo soffre di una arbitraria disconnessione temporale dei capitoli.

In sostanza, i tre nuclei narrativi della storia sono rappresentati da:

a)     il segmento di vita del commissario Pujol, da quando è presente sulla scena del delitto fino a quanto accade dopo il suo pensionamento. L’autore ci mostra le blande indagini che il commissario effettua sul delitto e, soprattutto, il modo in cui Pujol affronta il passaggio della fine della vita lavorativa e i moti di ribellione giovanilistici con i quali l’anziano reagisce a questo difficile momento. Questo nucleo narrativo mi è parso il principale, e, pur se ben descritto, non mi ha interessato moltissimo anche se probabilmente era una delle cose più importanti che l’autore voleva esprimere scrivendo il romanzo. Comunque questa è solo una questione di mie preferenze personali per certi argomenti piuttosto che per altri. Tornando agli aspetti tecnici, la narrazione della vita del commissario rappresenta l’asse temporale di riferimento sul quale dovrebbero andare ad incasellarsi cronologicamente le scene degli altri due nuclei narrativi.

b)     Le vicende di Tomàs, il protetto di Pujol, a New York, dove di innamora di una giovane ragazza spagnola. In questo contesto, Tomàs non è chiamato col suo nome esteso ma semplicemente come T.

c)     La successiva attività di Tomàs come infiltrato nel minuscolo e sperduto paesino in cui è stato commesso l’omicidio iniziale.

Mentre il nucleo narrativo principale a), la vita del commissario, scorre linearmente, fatti salvi gli ordinari flashback, le avventure newyorkesi di T. in un primo momento si alternano in modo cronologicamente corretto con le scene della vita di Pujol, ma da un certo punto in poi iniziano a non scorrere più in parallelo. Quindi, ad esempio, una telefonata tra il commissario e T. viene descritta nelle due vicende in momenti molto distanti, tanto da farci sospettare che il T. di New York e il Tomàs di Pujol siano due persone diverse. Quando poi Tomàs rientra da New York e inizia la sua attività di infiltrato, continua la sconnessione cronologica tra la vita di Pujol e quella di Tomàs, e, in più, tornano ad alternarsi alle vicende del paesino di montagna, capitoli con scene newyorkesi. Perlomeno, qui è chiaro che, per forza di cose, queste ultime sono antecedenti alle vicissitudini dell’infiltrato.

Questa intersecazione arbitraria delle linee narrative probabilmente è la soluzione che l’autore ha voluto fornire al problema tecnico rappresentato dal fatto che le tre vicende descrivono archi di tempo molto diversi tra loro; le vicende newyorkesi, in realtà, si sviluppano in pochi giorni, mentre le altre due storie hanno durata molto più dilatata, dell’ordine di parecchi mesi. Se l’autore avesse effettivamente proceduto a una narrazione in ordine strettamente cronologico, le scene di New York si sarebbero tutte addensate all’inizio.

Tutti i romanzi, in generale, hanno linee narrative che saltano avanti e indietro nel tempo e su questo punto sono perfettamente d’accordo con quello che scrive un autore maestro negli spostamenti cronologici, John Irving, che in Preghiera per un amico fa dire a un personaggio:  “Fu Owen Meany a insegnarmi che un buon libro è sempre in moto: dal generale al particolare, dalle parti al tutto e viceversa, avanti e indietro”. Però, di solito, anche se non ho trovato scritto da nessuna parte che questa sia una regola, il lettore viene chiaramente avvertito dall’autore che sta avvenendo uno spostamento cronologico. Ciò può avvenire con le formule tipiche del flashback (“Quando era ragazzo…”, “Una volta, tre anni prima…”, ecc.) o con altri accorgimenti quali, ad esempio, l’inserimento di date all’inizio dei capitoli. Tusset, invece, non si pone particolari problemi e ottiene un effetto spiazzante, non piacevole, sul lettore. Forse questa struttura narrativa un po’ rimescolata, mi si voglia scusare il termine, è stata introdotta in sede di seconda stesura, nell’intento di inserire drammaticità in un testo che altrimenti sarebbe scorso via un po’ troppo piatto. Ma l’autore, a mio avviso, poteva muoversi in modo tecnicamente più rispettoso nei confronti del lettore.

 

TROPPO EVIDENTE RICERCA DEGLI EFFETTI

In Nel nome del porco la ricerca da parte dell’autore di certi effetti è troppo evidente e artificiosa. Certe volte pare proprio di vedere l’autore che dice: qui voglio illustrare la pericolosità in potenza dello psicopatico e allora, come esemplificato da Stephen King nel suo saggio On writing, ve lo mostro all’inizio del libro mentre compie un atto di violenza gratuita su un animale. Oppure, che pensa: qui voglio far stare il lettore in ansia per la sorte di questa simpatica ragazza e quindi creo una certa situazione. Oppure: qui voglio rappresentare una scena di vita coniugale felice.

Forse è un problema mio, che ho sempre avuto una particolare sensibilità nello scorgere sotto il filo delle parole i meccanismi narrativi, cosa che spesso mi rovina il coinvolgimento nella lettura, ma qui gli accorgimenti tecnici adottati dall’autore mi paiono un po’ troppo trasparenti. Sembra che Tusset, in taluni casi, abbia voluto eseguire un compitino con diligenza seguendo senza troppo entusiasmo le regole dettate dai canoni del genere, con l’intento di scrivere un libro di successo.

 

In definitiva, pur se indubbiamente non è mal scritto, a mio avviso qualcosa non ha quagliato in questo libro di Tusset. Consiglio quindi di leggere piuttosto il suo divertente Il meglio che possa capitare ad una brioche e di sperare che in futuro l’autore voglia tornare sui toni umoristici, per i quali risulta più ispirato.


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