IL LERCIO di Irvine Welsh, ovvero: ancora la banalità del male (Conclusioni)

 

Il Lercio di Irvine Welsh alla fine l’ho terminato.

(Nota: la prima parte della recensione, che avevo scritto dopo aver letto un terzo del libro si può leggere in questa pagina)

Nel mio post IL LERCIO di Irvine Welsh, ovvero: ancora la banalità del male , scritto dopo aver letto un terzo del romanzo, mi ero interrogato sulla opportunità di continuare la lettura di quel libro.

Il linguaggio e il modo di vedere la vita dell’io narrante della storia, il sergente della polizia di Edimburgo Bruce “Robbo” Robertson, dopo avermi inizialmente colpito erano giunti ad annoiarmi, dato che non vedevo decollare, a fianco della mirabile descrizione del personaggio principale, una storia avvincente. Attribuivo, invece, a Welsh l’indubbio merito di aver testimoniato in maniera molto efficace l’esistenza di persone che non condividono i valori morali che dovrebbero essere patrimonio comune della nostra società e che, come ben osservato da uno dei commentatori del post, hanno nei confronti degli altri esseri umani una totale mancanza di empatia.

In pratica, per loro, le persone sono semplicemente strumenti o oggetti da utilizzare per soddisfare i propri bisogni o raggiungere i propri scopi. Chi ragiona in questo modo può quindi uccidere, violentare o rovinare una vita soltanto per noia o per cinque minuti di divertimento o per avere una promozione, dato che quel che conta è solo la propria noia o il proprio divertimento o il proprio successo mentre ogni altra conseguenza che coinvolge gli altri non ha alcuna rilevanza.

Mi era venuto da pensare che è molto importante che si sappia, e, in particolare, che i giovani sappiano, che al mondo esistono non pochi individui che hanno meccanismi comportamentali totalmente alieni rispetto a quelli che vengono supposti come condivisi da tutti. Il Lercio, quindi, illustrando molto bene questo concetto, potrebbe avere anche una funzione violentemente pedagogica. Ma, anche se non si voglia giungere a tanto, indubbiamente il Lercio è un libro che fa pensare; e questa è sempre una buona cosa.

Concludevo il post con una nota personale: ho una giovane figlia (oltre ad un ancor più giovane figlio) e forse questo mi porta a non sopportare i libri in cui l’io narrante commette senza alcun rimorso violenze e atrocità nei confronti di esseri indifesi. Per questo motivo interruppi a suo tempo anche la lettura di Bastogne di Enrico Brizzi.

Prima di procedere, due parole sulla violenza nei libri.
Concordo con tutti quelli che hanno osservato che la violenza è nella realtà, è inutile negarla o pensare di nasconderla ai figli, dato che la televisione stessa ne trasuda, a partire dai telegiornali.
È bene che la violenza sia nota, che si sappia delle torture e delle crudeltà atroci che taluni uomini sono capaci di praticare ad altri uomini. E forse è utile che talvolta la rappresentazione della violenza sia cruda, se ciò ha lo scopo di riaccendere le nostre consapevolezze intorpidite.
Ma mi pare che, mentre il racconto dell’esistenza della violenza sia diffuso nei vari mezzi di comunicazione, la rappresentazione diretta della violenza in televisione abbia, giustamente, dei limiti molto rigorosi, che sono più blandi nel cinema e che, teoricamente, potrebbero essere ancora più labili nella parola scritta, dato che in un libro l’effetto della rappresentazione è ovattato dalla mancanza di immagini. Ma, volendo, lo scrittore, dato il rapporto diretto che può realizzare col lettore, può creare delle rappresentazioni della violenza davvero intense e sconvolgenti. Ricordo un libro, Il longobardo, che mi regalarono e dovetti restituire al mittente dopo che ebbi letto nei primi capitoli la descrizione compiaciuta e dettagliata dello sventramento di un uomo. Quella scena mi parve del tutto gratuita. Diversa è la violenza, peraltro più morale e di linguaggio che fisica, esistente ne Il lercio, ove la presenza diffusa della prevaricazione è componente essenziale della storia.
Di fatto, ove siano rispettati taluni limiti, il grado di accettazione della rappresentazione della violenza in un libro dipende essenzialmente dai gusti personali.

Adesso che ho terminato di leggere Il lercio posso dire che il mio giudizio su questo romanzo è rimasto sostanzialmente uguale a quello che avevo formulato dopo averne letto circa un terzo.

Il libro, come osservato da molti commentatori, è debole dal punto di vista della trama mentre è potente nella descrizione del personaggio di Bruce.

Per quel che concerne la trama propriamente gialla, devo dire di averne intuito, a grandi linee, abbastanza presto la soluzione. Ma sul modo in cui ci sono arrivato, per molti versi interessante, è meglio sorvolare per rispetto dei non pochi che si sono detti incuriositi dal libro e che lo leggeranno prima o poi.

La storia personale di Bruce, invece, è un po’ più sorprendente anche se le rivelazioni sul passato del sergente, che dovrebbero spiegarne il comportamento e la nascita della sua amoralità, sono, dal punto di vista pratico, del tutto indifferenti.

Mi spiego meglio. Prescindendo un attimo dal libro in senso stretto, se Bruce è l’incarnazione di tutti quelli che non rispettano le regole morali e considerano gli altri prede di cui usufruire, dal punto di vista pratico è inutile sapere per quale motivo pregresso essi arrivino a comportarsi così.

Per la ragazza o il bimbo che viene violentato o torturato l’orrore che ella o egli sta provando non cambia affatto se il suo carnefice sia giunto a comportarsi in quel modo per motivi culturali o razziali o perché mentalmente disturbato o perché vittima anni prima egli stesso di violenza o perché sotto effetto di droghe o alcol o per qualsiasi altro dannato motivo. Il dolore, l’umiliazione, la morte rimangono gli stessi a prescindere dalle molle che hanno mosso l’aggressore.
Questi motivi, certo, esisteranno, perché viviamo in un universo causalistico in cui ogni cosa è generata da un’altra. E in taluni casi potremo giungere a comprendere chi uccide, qualche volta anche a provare compassione per lui, ma ciò non salverà la sua vittima.
L’unica cosa che la potrà salvare è la consapevolezza che il male esiste e che si può nascondere ovunque e dunque occorre avere cautela e tenere gli occhi sempre aperti. E avere tanta fortuna.

In questa rappresentazione esatta della realtà sta, a mio avviso, il significato istruttivo de Il lercio e la ragione del fatto per cui, malgrado i suoi non pochi difetti, vale la pena di leggerlo.
Perché ogni libro che genera riflessioni e pensieri, e che ci racconta qualcosa sull’essenza dell’uomo, è un libro che ha fatto il suo dovere.

Sergio Calamandrei

Sergio Calamandrei: vivo a Firenze, dove pratico il prosaico mestiere di commercialista. Mi appassionano scrittura, storia e letteratura. Per saperne di più: www.calamandrei.it/chi-sono-sergio-calamandrei/

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