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La storia del giocatore di football infelice  

 

C'era una volta un giocatore di football americano che si preparava a disputare la sua prima partita. 

Era molto contento perché gli avevano dato da indossare una maglia dai colori bellissimi ed aveva un casco decorato e luccicante. Iniziò la partita ed il giocatore giunse ad massimo della felicità perché un suo compagno gli lanciò il pallone. Il giovane si mise a rimirare con soddisfazione quella bella palla che gli avevano dato e si sentiva molto soddisfatto di sé. Dopo pochi secondi, però, vide apparire altri tre giocatori, grossi come armadi e vestiti con colori diversi dai suoi, che, urlando, gli saltarono addosso, lo gettarono a terra, gli strapparono il pallone e poi iniziarono a festeggiare questa loro bella impresa. 

Il ragazzo non riusciva a capire e si sentiva molto infelice. Non gli pareva una cosa giusta. Il gioco riprese ed il giocatore di nuovo ebbe il pallone e di nuovo venne atterrato dopo pochi istanti. Questo successe più volte. Continuava a giocare ma era sempre più triste. Si domandava cosa aveva fatto di male per meritarsi un simile destino e si chiedeva perché tutti quegli ossessi urlanti ce l'avevano con lui che si era sempre comportato così bene e non aveva mai torto un capello a nessuno. Perse in breve ogni sicurezza in sé e pareva fatalmente destinato a una vita piena di infelicità e di rancore contro quel mondo così ingiusto.

Per fortuna, un giorno il suo allenatore lo prese da una parte e fece una cosa che sinora tutti avevano dimenticato di fare. Gli spiegò, infatti, le regole del football americano. In particolar modo, gli disse che quando riceveva la palla doveva correre verso la linea di meta più velocemente che poteva e aggiunse che l'altra squadra avrebbe cercato di impedirglielo gettandolo per terra. Gli avversari, precisò, non ce l'avevano con lui in particolare ma si comportavano con così poco garbo nei suoi confronti perché ciò era quello che le regole prevedevano e che tutti si aspettavano che essi facessero. Gli consigliò, infine, di impiegare il suo fiato per correre ed evitare i colpi piuttosto che sprecarlo per lamentarsi delle avversità della sorte.

Il giocatore, una volta imparate le regole del gioco, cessò di essere infelice. Ogni tanto continuava ad essere atterrato ma sapeva che questo era naturale e che capitava a tutti quelli che giocavano. I colpi stessi, poiché spesso riusciva a prevederli, gli arrecavano meno dolore. Imparò ad essere via via più bravo nell'evitare gli avversari e riuscì sempre più frequentemente a raggiungere la meta. Ciò, a dire il vero, non gli riusciva mai alla prima corsa ma non se ne lamentava perché ormai aveva messo in conto che per segnare doveva rassegnarsi a subire uno o più atterramenti. Ma cadere non gli faceva troppo male perché, anche mentre era in volo e due di quegli scalmanati gli stavano crollando addosso, i suoi occhi non perdevano mai di vista la linea di meta e sapere dove si stava dirigendo gli dava sempre un gran conforto. Col tempo si prese anche la soddisfazione di essere lui ad atterrare gli avversari. Ora era un giocatore felice. Solo ogni tanto si rammaricava di quei suoi primi atterramenti, così dolorosi e subiti così ingenuamente. Me li sarei evitati, commentava, se qualcuno, invece di limitarsi a mostrarmi quanto era bella la divisa e come luccicava il casco, si fosse preoccupato di spiegarmi le regole del gioco.


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